Tra rose ed erbacce


Io amo arrampicarmi sugli alberi, è un amore che ho sin da piccolo. Ma allora non mi era concesso, mia madre era apprensiva e soffocava in modo sistematico questo mio slancio. Ricordo la sua mano onnipresente che si allunga per stoppare ogni mio movimento verso l’alto (e non solo quello). Ricordo quel particolare tipo di sofferenza, che è simile a quello di un respiro interrotto. 

C’è una scena, in uno dei miei libri preferiti, nel quale una bambina oppressa dai divieti materni confida all’amica:

“Quando un giorno avrò dei bambini, li lascerò crescere come le erbacce del nostro giardino. Nessuno se ne occupa e crescono altre e fitte così – le rose invece, attaccate ai loro sostegni nelle aiuole, fioriscono ogni estate più striminzite”.

Ecco, a volte sento la debolezza tipica di chi è stato trattato troppo da rosa, mentre avrebbe voluto crescere un po’ più da erbaccia. 



(illustrazione di Christian Schloe)

Tra sonno e veglia


Quando nelle fiabe la gente si ridesta da un sonno profondo e incantato, si trova in questa situazione: si domanda se tutto ciò che ha veduto nei sogni frammentati non sia alla fin fine reale, mentre il nuovo mondo, così limpido all'apparenza, è un'illusione. 

Quando mi inoltrai sul cammino, dopo il compimento dell'infanzia, avevo precisamente questo senso di dislocazione. Sarà forse un errore considerare la fanciullezza come una forma di sopore, un periodo di riposo per la vita spirituale, ma per far maturare ciò che nell'infanzia fu seminato, sembra che occorra una forma di sonno, una disattenzione ai piatti stereotipi dai quali siamo circondati. 


Mi ritrovo in questo breve passaggio di Morio Kita e ritrovo anche alcune sensazioni care. La primissima infanzia è il momento in cui siamo più vicini alla nostra origine, in uno stato di quasi completa identificazione con la nostra anima, in cui il nostro essere esprime ancora in maniera incontaminata la sua piena essenza, eppure quando abbandoniamo quella fase - verso i 2-3 anni di età - ci pare come di ridestarci da un inebriante torpore per accorgersi solo poi, nel corso degli anni, che mai come in quel torpore eravamo stati vicini all'essere svegli e a quel paradiso - che è esclusiva visione di ogni persona veramente sveglia. E che nel nostro cammino, il divenire adulti abbia forse rappresentato il vero e unico stadio di sonno. E se avremo la forza di distillare ciò, comprenderemo però che si trattava di un sonno necessario. Solo sperimentando un sonno profondo si riesce a prendere consapevolezza di cosa sia la vera veglia. E solo acquisendo coscienza di cosa è la vera veglia si trova il desiderio irrefrenabile di tornare a essa.



(illustrazione di Christian Schloe)

La battaglia che ci attende

“Non lasciate che la paura freni la vostra azione. Credete che evitando di combattere riuscirete a sopravvivere, pensate di essere al sicuro sulla terra ferma? Ora non avete più niente, ho bruciato le vostre case affinché affrontiate il mare. Non c’è nessun posto dove fuggire e nascondersi. Se vi aggrapperete alla vita senza l’onore di lottare per essa ciò equivarrà a morire. Combattete fino alla morte e vivrete!”

Queste sono alcune delle parole che l’ammiraglio YI Sun-si pronunciò ai suoi uomini durante la battaglia di Noryang. Sono passati oltre quattro secoli da allora, e vorrei che l’eco di quelle parole, e del sentimento che le animava, penetrasse un poco anche in noi in queste giornate. Alcune dinamiche di quella battaglia mi hanno evocato, infatti, l’azzardato parallelo con le tante battaglie che questa fase storica sta riservando e riserverà a tutti noi. Ma ora partiamo dall’inizio, e torniamo a Noryang, scenario dell’ultimo atto della campagna di invasioni giapponesi della Corea, che mise di fronte la flotta giapponese e le flotte alleate di Cina e Joseon (Corea). La battaglia ebbe luogo il 16 dicembre 1598 e si protrasse fino all'alba del giorno successivo. Il suggestivo film “L’impero e la gloria” del regista sudcoreano Kim Han-min ne ripercorre le fasi salienti e lo scontro finale - nello stretto di Noryang - tra la potente armata giapponese e quella coreana guidata dall’ammiraglio Yi Sun-si. 

La flotta giapponese è superiore di numero: 500 navi contro le 82 coreane. 

La differenza di forze in campo alimenta un sentimento di apprensione e sconforto nelle file coreane. 

Molti degli uomini non vogliono combattere, sono in preda a paure, incertezze, temono di perdere tutto ciò che hanno: le loro case, le loro famiglie, la loro vita. Il terrore li paralizza, e rifiutano di mettersi in mare. L’ammiraglio Yi sa che questo stato d’animo agevolerebbe l’invasione del nemico, è conscio che rifiutare lo scontro non salverebbe lui e i suoi uomini, e compie allora un gesto imprevedibile. Fa bruciare tutte le case del villaggio e davanti al comprensibile stupore dei suoi uomini, pronuncia un memorabile discorso che ha il suo epilogo in questo passaggio:

“Non lasciate che la paura freni la vostra azione. Credete che evitando di combattere riuscirete a sopravvivere, pensate di essere al sicuro sulla terra ferma? Ora non avete più niente, ho bruciato le vostre case affinché affrontiate il mare. Non c’è nessun posto dove fuggire e nascondersi. Se vi aggrapperete alla vita senza l’onore di lottare per essa ciò equivarrà a morire. Combattete fino alla morte e vivrete!”

Queste parole mutano qualcosa nell’animo dei propri uomini. La paura si trasforma in coraggio. E la battaglia, contro ogni pronostico, cambia corso: l’ammiraglio Yi attira la flotta delle navi giapponesi in una trappola mortale dove oltre 300 di queste affonderanno, e le restanti batteranno in ritirata. La battaglia si risolve a favore dei coreani. 

Le parole pronunciate dall’ammiraglio Yi ci riguardano più di quanto possiamo immaginare. “Credete che evitando di combattere riuscirete a sopravvivere, pensate di essere al sicuro sulla terra ferma?”. Già… Talvolta viviamo come aggrappati alla “terra ferma”, ciò che conosciamo ci rende sicuri, siamo in preda a una perenne inerzia che ci fa ruotare sempre intorno al nostro asse e ci tiene lontani da ogni cambiamento; un innato istinto di sopravvivenza ci paralizza di fronte alle infinite possibilità che in ogni istante si aprono dinnanzi a noi. Rifiutiamo il nuovo rimanendo ancorati al vecchio, non avanziamo oltre i confini noti, oltre all’ordinario. Così facendo stiamo di fatto abdicando al “vivere” in favore del “sopravvivere”. La vita è fatta di movimento, crescita, espansione, rinnovamento. 

“Ora non avete più niente, ho bruciato le vostre case affinché affrontiate il mare”.

L’ammiraglio si comporta con i suoi uomini come l’universo a volte si comporta con noi quando ci rifiutiamo di crescere, evolvere: ci pone innanzi situazioni estreme - come estrema per alcuni di noi può apparire questa fase storica - per tirarci fuori dal nostro guscio, dalla nostra immobilità; ci costringe a guardare in faccia le nostre paure, debolezze, e a risolverle; quello che ha sembianze di un gesto crudele è mosso da un fine amorevole, che mira al “bene superiore” dell’amato, pur comportando per lo stesso l’attraversamento di un passaggio di sofferenza.

Il rimanere senza niente è una situazione estrema che spinge a una reazione estrema, a trovare in se nuove risorse, forze; perdiamo ogni sicurezza, ogni appoggio… il vuoto che si ricrea in noi modifica la nostra struttura, la nostra chimica interiore, la nostra coscienza. Tantissime persone che compiono imprese memorabili sono persone ripartite da zero, reduci da potenti traumi e shock emotivi. Senza quegli scossoni ciò che giaceva nelle loro profondità non sarebbe emerso in superficie e il loro potenziale non si sarebbe potuto manifestare in pienezza.

Il rimanere senza niente, senza un posto dove nascondersi o privati da ogni via di fuga, ci costringe ad affrontare il mare, ad affrontare le nostre paure. Aggrapparsi alla sopravvivenza in modo vile ci fa perdere la possibilità di vivere, e conduce alla morte, alla morte interiore. La sopravvivenza è una velata forma di morte interiore. E noi siamo qua non per sopravvivere, ma per vivere.



(illustrazione di C. Schloe)

Il muscolo 

della gentilezza


La gentilezza è come un muscolo. E come un muscolo può avere dimensioni ed estensioni diverse. E come un muscolo può essere allenata, potenziata. Non importa il suo stato attuale. Non importa se quel muscolo sia da tempo atrofizzato o se basti un lieve movimento per procurargli dolore: quel muscolo esiste e può essere riabilitato, rieducato e riportato al suo normale funzionamento. Questo può avvenire in modo naturale e spontaneo, o può essere incoraggiato. Impegniamoci a non dimenticare le sconfinate estensioni a cui questo muscolo può tendere e soprattutto i benefici che ogni suo piccolo movimento può portare, a noi e agli altri. Sarebbe bello che questo luogo divenisse una sorta di piccola palestra della gentilezza, dove trovare ispirazione e stimoli per cercare di essere più gentili. Se ci abituiamo a provare sensazioni gentili, poi difficilmente vi rinunceremo. Io desidero essere più gentile. E vorrei condividere questo desiderio, qua, con qualcuno di voi.

A un anno da te

Caro padre,

ora che hai lasciato il corpo ti vedo e ti sento come mai ti avevo visto e sentito prima, perché lasciando il corpo tu non hai lasciato me, ma al contrario hai lasciato a me la possibilità di vederti per la prima volta, con chiarezza, di vedere cosa eri oltre a quel corpo, di scorgervi l’eterno che lo abita. Tu non sei sparito, ti sei moltiplicato, sei diventato visibile ai miei occhi e al mio cuore come mai lo eri stato, e io ti vedo e ti sento ora come mai mi era stato concesso prima. Non sei assenza ma presenza, pura e distillata presenza, e io ti sento, sento la tua anima, e sentire la tua anima è sentire te per la prima volta. Padre, mi hai costretto ad andare a fondo nella conoscenza della morte e andare a fondo nella conoscenza della morte equivale a conoscere meglio la vita - ampliarne la visuale - e comprendere che la morte ne è semplice estensione.

Tutto ciò mi consola. Ma è anche vero che a volte mi manca la parte fisica di te, le sue manifestazioni… ero affezionato al tuo corpo, al suo viso, alle sue buffe espressioni e a quel sorriso pacato che si innescava quando ti comparivo davanti, e anche al tuo sguardo, così tenero nei suoi ultimi mesi. Ed è stato dal tuo sguardo, dal modo nuovo con cui guardavi le cose, che ho compreso che te ne stavi andando. Ti osservavo nel terrazzo fissare il cielo e gli uccelli che lo attraversavano, o nella tua camera, quando costretto a letto, ammiravi gli alberi del giardino e i raggi di sole che filtravano tra le loro foglie, guardavi ogni piccola cosa inebriato di meraviglia, come quella di un bambino che le coglie per la prima volta, ma al tempo stesso con la malinconia di chi sa che presto non le potrà più cogliere.

Nell’intensità e nel trasporto di quello sguardo compresi che lo stavi per lasciare, e con lui il corpo. Ma anche in quei momenti non sentivo dolore ma solo una dolce commozione. Mi stavi abituando alle distanze. A colmarle. A colmarle con la comprensione che non ci sono distanze per il cuore. E che ciò che degli altri ci manca non manca a noi ma alla nostra personalità, per la nostra anima la morte è un lieve mutare di aspetto. Ricordo e amo tutto di te, anche ciò che da ragazzo mi creava fastidio, e che ora vedo come parti amorevoli di ciò che sei, e sento un affetto profondo verso quelle parti, in quanto ne vedo anche la sofferenza che celavano. 

Padre, sono stato forte in questi dodici mesi. Tu sai, che sotto questo tenero petto c’è un’armatura. Sotto questo tenero petto che si gonfia e freme come quello di un uccellino, e che si emoziona e trepida per tutto, c’è una profonda fede nella vita e nell’amore, e tu di entrambe mi hai rivelato le loro smisurate estensioni. 


Avrei voluto starti più vicino in ospedale, non me l’hanno permesso, avrei voluto tenerti la mano quando lasciavi il corpo, mi è stato negato, ma non ho mai sentito quelle privazioni come ferite, non ne sentivo il dolore, perché avevo già imparato a esserti vicino su altri piani. Tutto ciò che mi accadeva attorno, non mi riguardava, non mi toccava, perché tutto ciò che doveva accadere era accaduto e stava accadendo dentro. E ciò che accade dentro ti dà anche la giusta dimensione di ciò che accade fuori. Certo avrei voluto accompagnarti fisicamente in quell’ultimo frangente del tuo viaggio terreno, farti sentire il mio calore e la mia voce nel momento del distacco, e farti sentire che quella voce e quel calore sarebbero continuati anche quando avresti chiuso gli occhi, che niente finiva; sarebbe stato più facile per te, lo so. Penso che si rimanga straniati in quel passaggio e io volevo essere al tuo fianco per rendertelo più agevole. Ma anche se costretto fuori da quelle pareti io c’ero, la mia voce, il mio calore, il mio amore erano lì, e tu hai continuato a percepirli anche dopo che il tuo corpo fisico ha esalato il suo ultimo respiro, hai avuto prova che niente finiva in quell’attimo.


Padre sei ancora qua e sei ovunque il mio sguardo si posi. Non siamo mai stati così vicini. Non ci siamo mai amati così tanto quanto ora.

Adesso goditi questa nuova fase del tuo viaggio. 

E grazie per tutto ciò che hai donato e doni al mio. 

Ti amo.

Riccardo


Un anno fa, esattamente il 21 Settembre 2021, mio padre lasciava il corpo. Per un anno ho cullato in silenzio questo passaggio nel mio cuore. Io e lui, da soli. Questa lettera per lui è un piccolo sunto delle mie emozioni.


(illustrazione di C. Schloe)

Andando "oltre"


La parola “oltre” mi suscita, da sempre, una piacevole vertigine. Quelle cinque lettere esprimono un universo, anzi l’essere aldilà di ogni universo. 
Questa parola rievoca l’illimitatezza umana, e l’ebbrezza che ne consegue. Noi siamo “oltre”. 
Sentiamoci “oltre” in ogni istante delle nostra giornata. L’oltre è accesso al divino. Dovremmo usare questa parola come fosse un talismano, da invocare ogni qualvolta la vita inizia a sembrarci un po’ stretta. In quei momenti ricordiamoci di questa parola e scandiamola mentalmente, lasciandoci trasportare dalle sensazioni che sprigiona. 
Noi siamo “oltre”. 
E andare “oltre” i limiti e le convenzioni è un nostro dovere. 

Il dovere di ogni uomo libero, come ricorda anche Nikos Kazantzakis in questo illuminante dialogo tratto dal suo libro “Francesco”:


[parla il Despote a Francesco]

“- Fai il bravo Francesco, sei andato oltre… 

- E’ proprio lì che si trova Dio, mio Despote; risponde Francesco. 

Il Despote dice, muovendo la testa: 

- E la virtù richiede limiti; altrimenti rischia di diventare impudenza. 

- Nei limiti si trova l’uomo; oltre i limiti Dio. Verso ciò comincio ad andare, mio Despote, afferma Francesco, camminando verso la porta - aveva fretta.”



(illustrazione di C. Schloe)

Per cuori che si credono solitari

Quello che vi presento oggi è un testo comparso in un sito di cuori solitari, luogo solitamente affollato di annunci che più che fedeli descrizioni di ciò che siamo, assumono la forma di remote proiezioni di ciò che desideriamo sembrare. Eppure non è raro imbattersi in persone che rinunciano all’apparire in favore dell’essere, e non temono di manifestarlo. E quando ciò avviene nelle loro parole si avvertono chiare tracce della loro essenza. Come nel caso di questa ragazza straniera che, alla ricerca della propria anima gemella, ha pubblicato in un sito questo emozionante annuncio:


CHI SONO
Io posso tranquillamente definirmi una persona felice. Questo non perché abbia raggiunto particolari obiettivi o perché tutti i miei sogni siano diventati realtà. Ma semplicemente perché ho compreso che non c’è altro obiettivo e sogno più importante di ciò che l’esistenza quotidianamente mi offre. Io amo profondamente la mia vita, e amo profondamente il mondo. L’esistenza mi ha colmato di gioia, una gioia che ora sono in grado di donare anche agli altri. Non prendetemi per ingenua o sognatrice, semplicemente credo nell'amore. Anche quello a prima vista. Perché l'amore prima o poi arriva a tutti e quando accade riesce a farci compiere cose folli. A volte l’amore sceglie strade convenzionali, altre volte arriva per vie più contorte e con modalità incomprensibili, ma in un modo o nell’altro sa sempre come manifestarsi. Dobbiamo solo prestare più attenzione. Io non sono stata mai troppo incline ad offendermi facilmente e da un po’ di tempo non mi offendo proprio più. Nel tempo ho imparato a perdonare, che non equivale a sorvolare o a trattenere, ma ad avere una più profonda comprensione dell’altro, e soprattutto di me stessa. Nel tempo ho imparato anche a farmi da parte quando il momento lo richiede, e a riapparire quando c’è bisogno di me. Trovo sempre un motivo per un sorriso, anche dove sembra non esserci.


COSA CERCO: 
Sono qui per cercare una persona che mi ami così come sono, che non desideri cambiarmi perché io non proverò mai a cambiare lui. Un tempo giocavo a immaginare la mia anima gemella, e desideravo l'arrivo di una persona dal cuore gentile, che sapesse amare la propria famiglia, che fosse capace di essere nello stesso tempo radicata e leggera. In questi anni ho però compreso che non sempre ciò che desidero coincide con ciò che è meglio per me. Per cui non voglio conoscere o immaginare il colore dei suoi occhi, la sua altezza, la sua professione, e il suo nome: sono davvero così importanti questi dettagli? Possono le persone amare qualcuno e vivere insieme sulla base di queste informazioni o di altre aspettative? Credo proprio di no. E non mi importa neppure di conoscere la sua età, perché nessuno può conoscere l’età dell’anima di chi ha di fronte. Non importa neanche se abbiamo interessi comuni, perché sono certa che saremo in grado di crearne di nuovi e comuni insieme. E non importa, infine, se siamo molto diversi tra noi, perché in realtà ora abbiamo già trovato una cosa che ci accomuna: siamo entrambi qui per lo stesso motivo.


(illustrazione di C. Schloe)

Un demone per amico

C’è una cosa che colpisce visitando i templi buddhisti; quasi tutti hanno statue di feroci demoni a guardia delle loro porte. Se vogliamo entrare al loro interno, visitare e goderci la bellezza dei sacri spazi che vi sono racchiusi, dobbiamo forzatamente passare in mezzo a questi demoni dall’aspetto tutt’altro che invitante. Così accade in noi. Anche i nostri spazi interiori sono vigilati da demoni terrificanti. I demoni sono le nostre paure, ossessioni, traumi, condizionamenti. Tutte le nostre zone d’ombra.

I demoni non possono essere ignorati. I demoni vanno osservati. E ancora oltre: i demoni vanno amati. Solo così essi si trasformeranno e solo così essi ci daranno accesso alle parti più luminose di noi, rendendo pienamente visibile, completa e integra la bellezza del nostro sacro tempio interiore. Ogni qualvolta si porta luce a una zona d’ombra, questa improvvisamente disvela nuovi spazi e nuova bellezza.

Ci sono tanti modi per amare i propri demoni. Una volta consapevolizzato che i demoni non sono nemici bensì alleati preziosi (che ci guidano alla conoscenza di noi), ognuno può individuare, o meglio ancora crearsi su misura, la propria personalissima via per instaurarvi un sano rapporto, e trasmutarli.

Ne cito una che mi ha sempre incuriosito e, in parte, affascinato. E’ una pratica spirituale denominata Chod (termine che significa “recidere”), creata nell’XI secolo una maestra buddhista di nome Machig Labdron. Questa pratica si basa sul nutrimento dei propri demoni. Sì, il loro nutrimento. I demoni non vanno combattuti ma sfamati. Un approccio che mira a portare integrazione (dissolvimento di paure, traumi, condizionamenti) e conseguentemente libertà e pace interiore. E’ una forma di meditazione che si riassume in cinque stadi, che partendo dall’individuazione di un nostro demone portano ad instaurarvi un dialogo, a conoscerlo, nutrirlo e infine a trasformarlo in benevole alleato (se volete approfondire la pratica vi consiglio il libro di Tsultrim Allione “Nutri i tuoi demoni”). 

Ma aldilà dei passaggi tecnici di questa meditazione, è il concetto che li ispira e che ispira altre pratiche similari, quello che va impresso a fuoco nella nostra consapevolezza. I demoni non sono nemici estranei, che vanno negati o combattuti, ma sono parti di noi, e sono quindi parti che vanno amate e integrate. Ogni volta che accettiamo di osservarli e allunghiamo amorevolmente la mano verso di loro, la loro maschera terrificante improvvisamente cade, e dietro quella maschera scopriamo il nostro volto. 
Parti nuove del nostro volto. 
Che ci stavano aspettando. 
Sorridenti.

Le creature sospese


Ci sono persone che le riconosci subito.
La profondità del loro sguardo, la trasparenza della voce, l’estrema delicatezza dei gesti.
Sono persone che hanno una particolare, inconsueta, leggerezza; la leggerezza tipica di chi si muove sulla terra pur sapendo di appartenere al cielo.
Come creature sospese, che pur assoggettandosi alle dinamiche della materia riconoscono come famigliari solo quelle del cuore.
La loro presenza ci ricorda la nostra essenza.
Anime elevate che elevano noi a riconoscerci Anima.

(illustrazione di Christian Schloe)


Il difensore dei fragili


Un giorno un ragazzo down di 10 anni si presentò piangendo allo studio di Jérôme Lejeune, lo scopritore della sindrome di Down. La mamma del ragazzo spiegò al medico che il figlio aveva assistito a un dibattito tv in cui gli interlocutori si confrontavano sulla possibilità di eliminare i nascituri affetti da sindrome Down. Il ragazzo gettò le braccia al collo di Lejeune, supplicandolo in lacrime: “Dottore, vogliono ucciderci tutti; la prego ci protegga lei, noi siamo troppo deboli, non sappiamo farlo da soli!”. 

Fu in quel momento, di fronte a quelle parole e al volto in lacrime del giovane, che Lejeune prese la decisione di dedicare la sua intera vita a difesa di quelle fragili esistenze. Il genetista e attività francese mantenne fede alla parola, anche quando questo gli creò grosse difficoltà professionali e determinò un quasi totale isolamento: molti dei suoi colleghi infatti lo abbandonarono, altri lo contesteranno duramente e finì per non essere più invitato neppure ai congressi scientifici. Ma la sua promessa era sacra, come per lui era sacra la vita di ogni nascituro e dei più fragili tra loro. Non si fermò di fronte a nulla. “La compassione per i genitori è un sentimento che ogni medico dovrebbe avere. L'uomo che riesce ad annunciare a dei genitori che il loro bambino è gravemente malato senza sentire il cuore schiantarsi al pensiero del dolore che li assalirà, non è degno del suo mestiere. Non è commettendo un crimine che si protegge qualcuno da una disgrazia. E uccidere un bambino è semplicemente omicidio. Non si dà sollievo al dolore di un essere umano uccidendone un altro. Quando la medicina perde tale consapevolezza, non è più medicina”. 

E per Jérôme la medicina era amore, cura, ricerca e difesa dei fragili, e la sua azione è sempre stata quella di dimostrare come la paziente assistenza e la massima dedizione, siano caratteristiche fondamentali per una medicina che punti al progresso. 

Jerome portò avanti con coraggio la sua azione fino alla morte avvenuta il 3 Aprile 1994; negli anni successivi è stato proclamato venerabile dalla chiesa cattolica ed è in corso il suo processo di beatificazione e canonizzazione. 

 

Ho sentito il bisogno di ricordare questa figura proprio in un periodo in cui è in corso un vero e proprio “repulisti eugenetico”, non più piano esclusivo di poche menti folli, come quelle che frequentavano gli ambienti darwinisti e malthusiani della Royal Society o la Germania nazista, ma trasformatosi ora obiettivo strategico su larga scala di molti stati europei, con il conclamato scopo di arrivare a una società letteralmente “Down Syndrome Free”. Obiettivo che qualche Paese sta perfezionando con successo. In Danimarca il registro citogenetico centrale di Copenaghen mostra come le nascite annue di bambini con sindone down siano scese sotto i 18 bambini all’anno su oltre 61mila nascite. L’Islanda è a ruota. L’Inghilterra ha celebrato da poco la diminuzione dell’oltre 30% di nascite di bambini affetti da sindrome down. Tutti questi cali non sono frutto della ricerca scientifica ma semplicemente del fatto che incentivando le diagnosi precoci gratuite e le pratiche abortive vengono uccisi prima della nascita quasi tutti i bambini portatori della sindrome. Anche l’Italia si sta muovendo su questa linea. Questi stati europei sognano di divenire entro il 2030 i primi paesi “down free” del continente, esempio di una “società perfetta” che all’inseguimento del folle sogno di liberasi da quelle che considera imperfezioni umane sta smarrendo ogni traccia di umanità. 


Sull'esistenza di Babbo Natale


Ogni anno, a dicembre, scongelo questa storia dalla mia memoria e dal mio cuore e preparo entrambi ad accogliere la magia dello spirito natalizio...

Siamo nel 1897. Una bambina di otto anni, di nome Virginia, incalza il padre, il dottor Philip O’Hanlon, per avere conferme sull’esistenza di Babbo Natale. Virginia ne aveva iniziato a dubitare dopo aver parlato con alcuni suoi amici. Il padre le suggerì allora di porre questa domanda a una fonte ben più autorevole di lui: il New York Sun. 
“Se lo dice il Sun, allora è vero” assicurò il padre a Virginia. La bambina prese seriamente l'invito e scrisse una lettera al giornale. 

Il 21 settembre del 1897 sul New York Sun comparve un editoriale che si apriva con la lettera della bambina:

“Caro direttore, ho otto anni. Alcuni dei miei amici dicono che Babbo Natale non esiste. Mio papà mi ha detto: “se lo vedi scritto sul Sun, sarà vero”. La prego di dirmi la verità: esiste Babbo Natale?"  Virginia O’Hanlon

E a seguire la risposta che uno dei direttori del giornale, Francis Pharcellus Church, ex corrispondente di guerra durante la Guerra Civile, diede alla bambina, in quello che è diventato l’editoriale più riprodotto nella storia dei giornali anglosassoni:

Virginia, i tuoi amici si sbagliano. Sono stati contagiati dallo scetticismo tipico di questa era piena di scettici. Non credono a nulla se non a quello che vedono. Credono che niente possa esistere se non è comprensibile alle loro piccole menti. Tutte le menti, Virginia, sia degli uomini che dei bambini, sono piccole. In questo nostro grande universo, l’uomo ha l’intelletto di un semplice insetto, di una formica, se lo paragoniamo al mondo senza confini che lo circonda e se lo misuriamo dall’intelligenza che dimostra nel cercare di afferrare la verità e la conoscenza. 

Sì, Virginia, Babbo Natale esiste. Esiste così come esistono l’amore, la generosità e la devozione, e tu sai che abbondano per dare alla tua vita bellezza e gioia. Cielo, come sarebbe triste il mondo se Babbo Natale non esistesse! Sarebbe triste anche se non esistessero delle Virginie. Non ci sarebbe nessuna fede infantile, né poesia, né romanticismo a rendere sopportabile la nostra esistenza. Non avremmo altra gioia se non quella dei sensi e dalla vista. La luce eterna con cui l’infanzia riempie il mondo si spegnerebbe. 

Non credere in Babbo Natale! È come non credere alle fate! Puoi anche fare chiedere a tuo padre che mandi delle persone a tenere d’occhio tutti i  comignoli del mondo per vederlo, ma se anche nessuno lo vedesse venire giù, che cosa avrebbero provato? Nessuno vede Babbo Natale, ma non significa che non esista. Le cose più vere del mondo sono proprio quelle che né i bimbi né i grandi riescono a vedere. Hai mai visto le fate ballare sul prato? Naturalmente no, ma questa non è la prova che non siano veramente lì. Nessuno può concepire o immaginare tutte le meraviglie del mondo che non si possono vedere. 

Puoi rompere a metà il sonaglio dei bebè e vedere da dove viene il suo rumore, ma esiste un velo che ricopre il mondo invisibile che nemmeno l’uomo più forte, nemmeno la forza di tutti gli uomini più forti del mondo, potrebbe strappare. Solo la fede, la poesia, l’amore possono spostare quella tenda e mostrare la bellezza e la meraviglia che nasconde. Ma è tutto vero? Ah, Virginia, in tutto il mondo non esiste nient’altro di più vero e durevole. Nessun Babbo Natale? Grazie a Dio lui è vivo e vivrà per sempre. Anche tra mille anni, Virginia, dieci volte diecimila anni da ora, continuerà a far felici i cuori dei bambini”.

E noi siamo ancora capaci di credere a Babbo Natale? Di credere quindi a ciò che va oltre alla mente e ai sensi comuni?

Il temporale come esperienza interiore 

Esperienza intima è quella di una passeggiata in campagna prima di un temporale. Come sospesi tra due mondi, due diversi stati di coscienza. La natura muta da quiete a vigile, una sottile tensione l’avvolge e la tiene immobile. Poi su quell’irreale silenzio irrompe il vento, un fremito si espande, l’atmosfera si carica di elettricità, la natura fiuta l’imminente arrivo, e si agita: sa che sta per esserne travolta e sembra fremere affinché tutto questo velocemente si consumi. E tu con lei, partecipe di quel moto, ti uniformi nel profondo a quel sentire. E ci sono giorni che quel desiderio si fa irrefrenabile, e attendi il temporale e il suo carico come  salvifica, rigenerante, catarsi. Poi l’odore della pioggia, ancora prima di sentirla sulla pelle. E quelle prime gocce che ti toccano, taglienti, a ferire (aprono varchi sulla pelle e in noi), per poi scoprirle innocue, infine benevoli. Un abbraccio dall’alto, un abbraccio dal tutto. Ti senti accolto. Si passa dalla possibilità che tutto possa accaderti, alla consapevolezza che niente di male mai ti accadrà. Dalla paura di perdere tutto, alla consapevolezza che nulla si può realmente perdere.

E ORA…

OSSERVATE I BAMBINI

L’acqua è un elemento vitale, ci compone, e i bambini amano l’acqua in tutte le sue forme e varianti. 
La loro bocca si apre ingorda per assaporarla quando sgorga fresca da qualche fontanella.
Il loro corpo sguazza trepido nella vasca di casa. 
I  loro piedi saltano festanti sopra le pozzanghere e le loro figure danzano come pazze sotto la pioggia. 
E’ un amore totale. 
Nel contatto con l’acqua c’è un riverbero ancestrale, che ridesta sorrisi, famigliarità e un reciproco senso di appartenenza. 
L’acqua si concede a loro con passione e loro con la stessa gioiosa passione si concedono a lei. 
Ciò che è dentro è anche fuori, e il contatto con l’acqua infonde un senso di unità, di un legame che si ricompone pur non essendosi, in realtà, mai spezzato. 

L'ESERCIZIO


Torniamo, anche noi adulti, a riappropriarci di questo antico legame con l’acqua e con la gioia che ci procura il suo contatto. Concediamoci qualche giocoso momento bagnato in questa giornata, che sia qualche saltello dentro una pozzanghera o una camminata sotto la pioggia.










le illustrazioni in questa pagina sono di Christian Schloe. Questa la sua pagina social: https://www.facebook.com/ChristianSchloeDigitalArt/ 

Il dizionario dell'anima

Questo è un libro nato per gioco. Per gioco ma anche per gioia, che è una parola che si lega bene alla prima: quando si gioca si è nella gioia, e quando si è nella gioia tutto appare un gioco. E' un piccolo viaggio all’interno dell'anima e di 25 parole a lei care, parole che richiamano temi cruciali delle nostre esistenze come amicizia, bellezza, consapevolezza, creatività, destino, intuizione, gentilezza, libertà, sogno. E' un libro in forma di conversazione, che credo sia interessante non tanto per quello che io e Nicolò ci diciamo (in realtà spero anche per quello :-) ) quanto per la capacità di stimolare nei lettori un processo analogo a quello che ha innescato in noi, di una indagine cioè del nostro rapporto con queste parole,  quale e quanto spazio occupano nelle nostre vite, quanto del loro potenziale rimane ancora inesplorato.  L’invito a chi si accosta a queste parole è quello di fermarsi a giocare con loro, sentire cosa comunicano, scoprire quali tesori disvelano (dietro e dentro le parole c’è sempre qualche tesoro che è in attesa di incontrarci). Due ulteriori motivi di gioia legati a questo libro: 1) E' co editato da "Lo Spirito Infantile" 2) I diritti d'autore sono destinati alla costruzione di una scuola per bambini profughi in Kenya.

 

Il miracolo di un abbraccio

La durata media di un abbraccio tra due persone è di 3 secondi.
Una ricerca scientifica, anni fa, rilevò che quando la sua durata si protrae fino a circa 20 secondi, accade un piccolo miracolo. Durante un abbraccio sincero di tale durata i nostri corpi producono un ormone chiamato “ossitocina”, noto anche come l’ormone dell’amore. In realtà ogni abbraccio, o qualsiasi altro sincero gesto di contatto con gli altri, produce un potente mix di sostanze che comprende, oltre l’ossitocina, anche endorfine, seretonina e dopamina. Tutte sostanze che hanno effetti benefici sulla nostra salute fisica, mentale e psichica. Un abbraccio ci rende più distesi, sereni, gioiosi. In sostanza abbiamo a portata di mano un potente tranquillante naturale. Che noi adulti non usiamo. O usiamo di rado. O usiamo in maniera frettolosa, meccanica, non partecipe, rinunciando così ai suoi benefici. Non credo che occorra armarsi di cronometro e verificare puntigliosamente il trascorrere dei venti secondi; sono convinto che ne siano sufficienti anche pochissimi purché in quei pochissimi l'abbraccio scorra sincero, partecipe, carico di intenzione e sentimento. Ma noi adulti raramente ci abbracciamo così. 



E ORA…

OSSERVATE I BAMBINI

la loro connaturale propensione all’abbraccio, manifestazione spontanea di affetto per l’altro, di condivisione, gratitudine.
Osservate l’intensità con cui si - e ci - abbracciano; sono completamente riversi in quel gesto, e osservate la tenacia con cui protraggono quell’abbraccio, quasi a non voler più mollare la presa, quasi fosse percepibile in loro il piacere che traggono, e al tempo stesso procurano, da e con quel gesto. E di conseguenza anche lo strenuo desiderio di gustarselo a fondo.

Anche Fedor, il bambino russo protagonista dell'ebook "Angeli, Zanzare e Castelli" adora gli abbracci. In tutte le loro forme. E senza preclusione sui destinatari.
Un giorno mentre stringeva il suo peluche prediletto mi disse:
Io credo che quando uno abbraccia forte un peluche e lo abbraccia sentendo amore gli trasferisce quell’amore, sul serio. E poi lui lo ridà indietro, in un modo o nell’altro”.
(Per chi desidera conoscere Fedor, consiglio questa lettura:
https://www.lospiritoinfantile.it/libri/collana-still-i-rise/

L'ESERCIZIO

Usiamo questa giornata che è appena iniziata per riaccostarci e riavviarci alla pratica dell’abbraccio. Con una nuova consapevolezza verso quel gesto e verso ciò che alimenta (magari, ispirandoci proprio ai bambini).
Sì, oggi sfidiamo ogni genere di resistenza, e impegniamoci ad abbracciare qualcuno, caricando di affetto e intensità quel gesto, rimanendo presenti a quell’istante e attenti a tutto ciò che si genera, e muove, in noi e nell’altro. E invitiamo almeno un altro a fare altrettanto, alimentando una piccola luminosa catena amorevole tra le persone che si estenda il più lontano possibile. Almeno per oggi. 

p.s. se l’abbraccio risulta troppo estremo va bene anche un qualsiasi altro tipo di contatto fisico (una stretta di mano o una carezza) e se proprio il contatto fisico risulti ancora difficile, può essere sostituito anche da uno sguardo o una frase gentile (anche queste, in fondo, sono forme di “abbracci” nei confronti dell’altro).

(le illustrazioni a corredo dei testi sono di Christian Schloe)


La logica infantile del denaro


Ho una concezione infantile del denaro.
Continuo a farmi su di esso le stesse domande che immagino si facciano i bambini.
Non riesco a comprendere il denaro, i suoi meccanismi e l’uso che se ne fa o che non se ne fa.
Mi identifico nella logica del bambino - mi appare sensata - ogni qualvolta penso al denaro.
Il denaro è carta.
Però da questa carta dipende il mondo, dipendono miliardi di vite umane.
Tutti dipendiamo da quella carta.
Con quella carta possiamo vivere.
Senza quella carta moriamo.
La quantità di carta presente in un Paese ne determina qualità di vita, benessere, sopravvivenza e morte.
Ma la carta è stampata da quegli stessi Paesi.
Allora perseverando nella logica infantile, viene spontaneo chiedersi: ma perché quegli stessi Paesi di fronte a situazioni estreme (come quelle di uomini e bambini che muoiono di fame e malattie) non stampano la carta necessaria a salvare quelle stesse creature.
Perché non si concede un livello minimo di quella carta, che sia tale da impedire la morte delle persone.
Non si può morire per mancanza di carta.
E tra l’altro stampare carta costa poco, quasi nulla.
Ai bambini non interessa la risposta che potrebbe dargli un esperto di economia o politica monetaria, a loro interessa semplicemente una risposta di buon senso.
E quell’esperto difficilmente gliela potrebbe fornire.
Il buon senso è che la carta non può prevalere sulla vita.
Non può avere più valore della vita di una persona.
Non si dovrebbe mai permettere a dei bambini di morire o vivere tra stenti e disperazione per mancanza di carta.
C’è qualcosa di importante che sfugge alla razionalità del bambino in tutto ciò.
La carta è importante, regola un sistema, ne permette il funzionamento, ma andrebbero rivisti e umanizzati i meccanismi che stanno alla base della sua creazione e distribuzione.
Andrebbe fissata una soglia minima di sopravvivenza e ogni essere umano avere diritto alla quantità minima di carta che garantisca di non scendervi mai al di sotto.
Poi oltre a quella soglia di sopravvivenza il sistema rimarrebbe identico all’attuale, e ognuno libero, come è giusto che sia, di accumulare carta in base alle proprie capacità, abilità, interessi, motivazioni.
Il collezionismo di carta rimarrebbe lecito, e incentivato (di per sé non nuoce, anzi).
Ma ci deve essere un minimo di carta che assicuri la sopravvivenza delle persone.
Questa è la proposta che suggerirebbe un bambino.

p.s. ENIGMA NUMERICO
2600 sono i miliardi che Banca Centrale Europea ha creato dal nulla negli ultimi anni e "donato" alle banche (altre centinaia di miliardi finiscono annualmente in bandi e finanziamenti a fondo perduto).
267 invece sono i miliardi che servono per debellare definitivamente la fame nel mondo (fonte Fao).  
Se un bambino conoscesse l'esistenza di questi numeri si chiederebbe sicuramente come mai una minuscola percentuale dei primi non venga utilizzata per coprire i secondi.

Usiamo le parole!

Usiamo le parole! 
In questo periodo c'è bisogno di parole. Usiamo le parole, perché le parole sono potenti. Sono espressione luminosa della potenza che è in ogni essere umano. 

Siamo esseri potenti, facciamo sentire la nostra potenza a chi crede che non ne possediamo o si illude di averne il controllo. Facciamo sentire la nostra potenza attraverso le parole. Il mondo non è più potente di noi, delle nostre parole. Per questo motivo... Qualcuno nel mondo proverà a togliercele, o peggio tenterà di farci pronunciare parole identiche alle sue, suggestionandoci fino a indurci a sentirle nostre. Teniamo le parole collegate al cuore, perché le parole che escono dal cuore sono incorruttibili, inarrestabili, attraversano e colmano distanze, erodono e penetrano barriere. Non esiste arma che possa fermare il corso di queste parole e non esistono limiti agli effetti che queste parole sono destinate a generare. 

Usiamo le parole! 


(illustrazione di Christian Schloe)

Amo vedere i bambini felici

Adoro vedere i miei figli felici, adoro vedere i bambini felici, il modo di essere felici dei bambini mi entusiasma, sento brividi percorrermi dentro, in profondità. Il loro essere felici mi ricorda il mio essere felice quando avevo la loro età ed è un essere felice totale, speciale, diverso dall’essere felici di un adulto, molto diverso.

Mi accorgo ora che la parola adoro non è corretta. Io non adoro, ma amo vedere i miei figli felici, amo vedere i bambini felici; amo è la parola giusta perché quel che sento in quei momento è amore, amore per loro, amore per il loro modo di essere felici, amore pensando a loro che vivono quel genere di felicità, amore nel risentirmi anche io dentro a quello speciale flusso di felicità, amore perché quando entro in questa spirale tutto ciò che sento dentro e vedo attorno è amore, sempre e solo amore


Un regalo di Natale dal passato


Come regalo di Natale ho ricevuto un macbook air 128gb, oro, modello 2019.

Me l’ha regalato mia nonna Valentina. 

Mia nonna Valentina è morta il 12 dicembre del 2003. Sedici anni prima di farmi questo regalo.

C’era un forte legame tra noi. Tanti anni vissuti insieme, durante i quali tanti pomeriggi d’inverno trascorsi tra conversazioni, letture di libri, scrittura di poesie (amava scrivere poesie dialettali), e partite a carte (briscola, rubamazzo e bestia erano i suoi preferiti). La sua era una amorevole e calda presenza.

Poi se ne è andata, gli ultimi ricordi del suo corpo in vita sono ferite che fatico a dimenticare. Agonizzante a letto, lo sguardo fisso al soffitto, la bocca spalancata e l’aria che lentamente e inesorabile cessa di affluire. 

Di mia nonna conservo una piccola coperta di lana fatta a mano. E’ la cosa che più la rappresenta, che più me la ricorda. Quando sto poco bene me la tengo stretta al corpo, ha un calore che guarisce. Funziona anche con mia figlia, appena ha male alla pancia, le appoggio la coperta di mia nonna e il dolore svanisce in pochi minuti.

Tra i lasciti di mia nonna c’è anche un bracciale d’oro, formato da anelli ovali infilati tra loro. L’ho sempre conservato, resistendo a venderlo anche nei momenti di difficoltà. Poi un giorno ho sentito che era il momento, ho percepito che mia nonna sarebbe stata felice se da quel bracciale avessi ricavato qualcosa di utile alla mia vita. Ho pensato subito allo scrivere, attività che io e lei condividevamo. E il mio vecchio computer mi sta rendendo un po’ difficile questa attività e sento che è arrivato anche per lui il tempo di riposare - me lo dice in tante maniere (blocchi continui, memoria esausta, difficoltà di adattarsi ai nuovi programmi etc).

Ho deciso così di destinare la cifra raccolta dalla vendita del bracciale (quasi 900 euro) a un nuovo computer.

Il nuovo computer costa 1276 euro. Ho cercato offerte in rete che si avvicinassero all’importo a disposizione, ma vorrei che l’acquisto si finalizzasse con lo stesso denaro che ho ottenuto dalla vendita e che conservo nello stesso portagioie in cui conservavo il bracciale. Per cui ho atteso che altre offerte si presentassero in un qualche store vicino a dove abito. 

Eccole arrivare. Black friday. Mediaworld: macbook air 128 gb, color oro a 895 euro!

Lo voglio color oro perché mi ricorderà l’oro del bracciale, mi piace pensare che quell’oro si sia semplicemente fuso per dar vita a un nuovo oggetto e in quel colore sentirò vivo il ricordo di mia nonna.

Salgo in auto di prima mattina, lo store di quella catena più vicino è a qualche km da Rimini, ma scelgo quello più lontano, a Pesaro, perché mia nonna abitava a venti minuti da lì. Sono in perfetto orario per arrivare all’apertura. Sto entrando al casello autostradale di Cattolica quando nel tratto di strada che lo precede, passo davanti a una vettura ferma, è una vecchia Fiat 500, dentro una signora anziana, a lato una colonna di auto che le sfilano accanto, scartandola. Penso che qualcuno si fermerà prima o poi e non è strettamente necessario che quel qualcuno sia io. Inoltre la signora avrà sicuramente già provveduto telefonicamente a chiamare un qualche caro. Mi passa anche il dubbio che si sia fermata in quella posizione insolita giusto per fare una telefonata. Mi rincuoro con questi pensieri, ma poi mica tanto, così parcheggio nella prima area che trovo. Inizio a camminare a piedi per raggiungere la 500, e mentre cammino mi arriva nitida la sensazione che questa tappa mi costerà il computer. Tentenno per qualche metro poi penso che è comunque la cosa giusta, mia nonna non avrebbe mai lasciato una persona in difficoltà, mia nonna era una persona gentile, di cuore. Arrivo all’auto. La signora abbassa il finestrino. Ha un telefono in mano, con il quale aveva già chiamato il marito. Mi ringrazia per essermi fermato e le spingo l’auto così che la accosti al bordo della strada. Riprendo la via dello store, ha già aperto da un quarto d’oro quando arrivo, l’esatto tempo della sosta imprevista. Arrivo al reparto e chiedo. Ma di Macbook air color oro non ce sono più. E mentre vado, il commesso aggiunge: “Ho appena venduto l’ultimo, qualche istante fa”. 

Gli chiedo se nell’altro store vicino a Rimini ci sia ancora disponibilità, lui controlla e mi dice: ancora tre. In trenta minuti arrivo nel negozio gemello ma quei tre sono già stati venduti in quel frangente. Riprendo la strada verso casa. Vorrei sentirmi sconsolato, ma non riesco. La sensazione dominante è quella di una strana sublimazione, come che il sentimento di mia nonna abbia ripreso forma viva attraverso quella simpatica trama. Che poi mi accorgo non essere ancora esaurita. Tornando, faccio tappa in un bar, dove girovagando sul cellulare noto un’offerta ancora più vantaggiosa in un altro store (Comet). E’ proprio sulla strada di ritorno. Sono spoglio di speranze, non perché è ormai tarda mattina e le offerte non resistono fino a quell’ora, ma perché sento che il vero regalo ha già preso sostanza e senso, in altre forme, su altri piani. Con questa leggerezza entro nello store dove il commesso consultando le giacenze in magazzino mi annuncia, incredulo, che ce n’è ancora uno. Ed è color oro. il suo sguardo è sorpreso, più del mio: evidentemente non ne sospettava la presenza, neppure lui. Mi piace immaginare che quel gestionale lo abbia tenuto nascosto per me, in attesa del mio arrivo ;-)

Quest’anno il mio regalo di Natale è veramente arrivato dal cielo. Disceso a me da quell’imprecisato paradiso dove riposa mia nonna.

E siccome in cielo il tempo esiste ancora meno che sulla terra, sento lo sguardo emozionato di mia nonna mentre me lo sta consegnando; proprio ora. E il suo volto non è più quello di una anziana agonizzante ma quello di una persona felice.

Grazie di questo dono, nonna Valentina. Lo onorerò.

Ti voglio bene! 

Il potere delle parole

Ho voluto dedicare il mio nuovo libro alle parole, perché le parole hanno sempre avuto un ruolo importante nella mia vita. Anche quando non sospettavo potessero averlo. In realtà sono state proprio le parole a cambiarmi più volte il corso della mia vita. E sono state 10 parole in fila lette nell’agosto del 1993 in una afosa spiaggia di Riccione, mentre sorseggiavo una birra, a farmi scoprire l’amore per le parole e a rivoluzionare completamente quella che era la mia vita di allora. Le dieci parole appartenevano a un libro di Charles Bukowski, capitatomi “casualmente” tra le mani quel pomeriggio (per il “me” di allora la comparsa di un libro tra le mani era sicuramente un accadimento casuale visto che fino ad allora ne avevo letti forse una decina in tutto, o non molti di più). 

Le parole erano: 

"Tu sei meraviglioso, gli dei aspettano di compiacersi in te".

E appartenevano alla poesia "Cuore che ride". Quel che accade dopo quelle dieci parole fu del tutto inatteso e inaspettato. Dopo aver letto quella poesia, sentii il cuore deflagrare, esplodere, fui travolto da un’ondata di bellezza di dimensioni incalcolabili, che il mio “io” di allora non riusciva né a comprendere tantomeno a contenere.

In quel preciso istante decisi che avrei scritto, che nella mia vita la scrittura avrebbe avuto un ruolo fondamentale. Che avrei vissuto di parole.

In quel tempo avevo avuto un'offerta per un lavoro in un ufficio di un’azienda (ero fresco di un dottorato in scienze manageriali, e di un diploma di ragioneria prima). Chiesi ai miei genitori un anno di tempo per andare a Torino e dedicarmi alla scrittura, se al ritorno non sarei riuscito a vivere della mia scrittura avrei accettato il lavoro in ufficio.

Sono passati 27 anni e in quell’ufficio non ci sono mai entrato. E questo lo devo alle parole.

Ecco perché, questo nuovo libro ("Il dizionario dell'anima" scritto con il caro amico Nicolò Govoni), che celebra proprio le parole, ha per me un grande significativo. E mi auguro che anche i lettori possano trovare tra le sue pagine qualche passaggio stimolante.

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5 Luglio 2019

La luce che la vince sul male

In questi giorni in cui davanti ai nostri cuori scorrono notizie di infanzia violata e bambini maltrattati, con tutto l’orrore che ne consegue, mi piace far volare il pensiero verso una figura che infanzia e bambini, invece, amava: David L. Weatherford

David era uno psicologo infantile. Se ne è andato nel 2010, dopo una lunga malattia, che lo ha costretto a 27 anni di dialisi. 
La sua profonda passione per la scrittura risale al 1982, proprio quando aveva iniziato a ricevere trattamenti di dialisi che lo tenevano legato a un apparecchio per molte ore al giorno. 
David amava le persone e la vita, c'è amore e sconfinata dolcezza nei suoi testi (e in lui). 
Appena li lessi me ne innamorai e decisi di riunirli in un libro, che editai qualche anno fa. Desideravo che altri, oltre a me, avessero la possibilità di leggerli.

David amava i bambini, David aveva tratti tipici dei bambini. A partire da uno sguardo poetico, ricolmo di candore e amore verso l’esistenza e verso le sue manifestazioni.
Ricordarmi di lui proprio in questi giorni, è un modo per rinnovare la fede infantile nella luce che è presente in ogni animo umano e la certezza che, prima o poi, quella luce la vince sul male.



E per imprimere meglio queste convinzioni vi lascio ora con la sua poesia più conosciuta,
"Danza lenta": 


Hai mai osservato dei bambini su una giostra 
o ascoltato la pioggia battente che colpisce il suolo? 

Hai mai seguito il volo errante della farfalla 
o scrutato il sole che sfuma nella notte?

Dovresti rallentare, frena un po’ la tua danza, 
il tempo è poco, la musica non durerà.

Vivi ogni giorno al volo? 
Quando chiedi a qualcuno “Come stai?” ascolti mai la risposta?

Quando la giornata è finita, ti sdrai sul letto, 
pensando a mille cose che ancora ti restano da fare?

Dovresti rallentare, frena un po’ la tua danza, 
il tempo è poco, la musica non durerà.

Hai mai detto a tuo figlio, "Lo faremo domani", 
senza vedere, nella fretta, la sua delusione? 

Hai mai perso i contatti, lasciando morire un’amicizia 
perché non c’era tempo di chiamare e dire ciao? 

Dovresti rallentare, frena un po’ la tua danza, 
il tempo è poco, la musica non durerà.

Quando corri a più non posso per raggiungere una meta 
perdi metà del divertimento per arrivarci.

Quando ti angosci e corri nelle ore del tuo giorno 
è come se buttassi un dono senza aprirlo.

La vita non è una corsa, prendila con più calma, 
ascolta la musica prima che la tua canzone finisca.

 


Chi desidera leggere il libro che prende titolo da questa poesia lo trova qua:

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(illustrazione di C. Schloe)

Verso una diversa forma di distanziamento

Più che di un distanziamento sociale, sento che in futuro prossimo avremo urgenza di un distanziamento informatico, tecnologico, digitale, mediatico; e di isolamento non dai nostri simili e dal calore umano, né dalla natura, ma dalle scariche di informazioni, sollecitazioni, impulsi, pressioni, condizionamenti a cui siamo stati compulsivamente sottoposti da decenni, e che dai nostri simili, dal calore umano e dalla natura iniziano a tenerci sempre più distanti. E pure da noi stessi. 

 Potremmo sfruttare questo periodo come un nostro personale elettroshock cerebrale, per attenuare questo bombardamento, per astrarci un attimo da questo flusso ipnotico e alienante, per attenuarlo e umanizzarlo, e soprattutto per iniziare finalmente a discernerlo, per discernere il sottile confine dove quel flusso è impiegato dall’alto in modo distorsivo e manipolativo - con fini impropri, per creare visioni improprie di realtà. Fermare il pensiero per ridare aria ai pensieri, per tornare a sentirli liberi e nostri. Per riconnetterli al cuore, al sentire, all’intuito, agli istinti, agli impulsi creativi, alla una sana primordialità. Alla nostra essenza, insomma. 


(illustrazione di Christian Schloe)

Come Anima e Corpo

Vai contro i mostri lanciati da Vega
vai, che il tuo cuore nessuno lo piega
e... io sto tranquillo se ci sei tu
mille armi tu hai, non arrenderti mai
perché il bene tu sei, sei con noi

Mi piace visualizzare Goldrake (il robot dell’omonima serie cartoon degli anni ’70) e Actarus (il ragazzo che lo pilotava) come metafora di quello che è il rapporto tra corpo e anima. 
Actarus… l’anima, Goldrake… il corpo. 
Actarus entra in Goldrake, ne prende il comando e lo dirige per combattere il male e portare a termine le proprie missioni. Noi siamo Actarus. 
E’ bello sentirsi Actarus, sapere di poter pilotare il nostro personale Goldrake (il nostro robot fatto di “corpo-mente-emozioni”), di poterlo usare per raggiungere determinati obiettivi, mantenendo sempre salda la consapevolezza di essere qualcosa che è “oltre” a lui, e che, indipendentemente da lui, avrà un “oltre”.

Vivere dentro qualcosa che non siamo - consapevoli di quella distanza - infonde leggerezza; sapersi qualcosa che trascende il nostro corpo biologico, è una disidentificazione rasserenante e allo stesso tempo stimolante. Che ci rende “invincibili” nella nostra personale lotta contro il male e nel perseguimento della nostra missione terrena (e ultraterrena😉).



  ♫ Va... distruggi il male e va 

va... distruggi il male e va 

invincibile sei perché Actarus c'è 

che combatte con te, dentro te...


E ora…

Guardiamo i bambini

Nei primissimi anni di vita loro percepiscono - in maniera più o meno definita - di essere qualcosa che va oltre a un corpo e che si perpetuerà altrove, in altre forme in altri tempi. 
Fedor, il mio bambino, all’età sei anni intuiva dell’esistenza dell’anima, e chiamava quell’anima il “grande insetto”. “
In ogni persona c’è un piccolo insetto comandante. Anch’io ho il mio nella testa. E’ come un fantasma che entra in una persona e vede cosa pensa e cosa guarda quella persona, poi quando quella persona finisce, lui esce e va in un’altra persona. Il fantasma è dentro di noi come un insetto che comanda quel corpo ma se esce… quella persona si secca”. Un giorno ho letto una storia di un bambino che alla nascita della sorellina, ha chiesto ai genitori di restare solo con lei e una volta solo le si è avvicinato e le ha sussurrato: “Parlami di Dio. Io me lo sto dimenticando”. 
E anche noi, talvolta tendiamo a dimenticare Dio, e, forse peggio, a dimenticare la nostra natura divina.

E' bello tornare a provare questo genuino infantile sentirsi “anima”. 



La Zona Arcobaleno

(Lettera ai bambini delle zone rosse)

Cari bambini,

siccome il rosso è il primo colore dell’arcobaleno, ho pensato di non lasciarlo solo a reggersi tutto il peso del momento. Ho così deciso di convocare tutti i suoi colleghi per sostenerlo e tenergli compagnia, e soprattutto per trasformare la monotona Zona Rossa in una vivace Zona Arcobaleno. E così, da questo momento, tutti voi diventerete abitanti della Zona Arcobaleno. 

Vi troverete ancora il rosso, certo, ma non sarà più lasciato solo. Gli altri colori gli saranno vicini, più caldi e vitali che mai. E chi, come voi, abita in una zona arcobaleno si impegnerà a rispettare il rosso con tutte le sue regole, ma senza dimenticare gli altri colori e i doni che vi porteranno. 

Il giallo, vi darà luce ed energia, ricordandovi il calore di un sorriso e di ogni gesto gentile (usate questi giorni per essere più gentili gli uni con gli altri e godetevene i miracolosi effetti). 

L’arancione vi aiuterà a mantenere fiducia in voi stessi, infondendovi anche tanta armonia e creatività (inventatevi tanti nuovi giochi in casa o nei parchi, mi raccomando). 

Il blu vi insegnerà ad apprezzare il silenzio e a crearvi un vostro piccolo rifugio personale dove imparare a stare in compagnia di voi stessi (c’è uno sconfinato mondo pieno di magia dentro ognuno di voi ed è bello ogni tanto darvi un’occhiata) 

L’indaco vi aiuterà a trovare in quel silenzio la calma e tutte le risposte di cui avete bisogno (ricordatevi di darmele anche a me, poi).

Il viola vi aiuterà a tenere vivi i legami con gli amici e con le persone amate, anche se abitano distanti da voi (non c’è distanza che il cuore non sappia colmare, ma questo penso già lo sappiate). 

Il verde vi donerà speranza e vi ricorderà la bellezza che c'è in ogni ciclo di rinascita e rinnovamento, e soprattutto l’imminente arrivo di una nuova entusiasmante primavera. Allo stesso modo in cui l’arcobaleno, che quel verde comprende, annuncia sempre la fine di un temporale e il ritorno del sereno. 

Buon Arcobaleno a tutti!



(illustrazione di Christian Schloe)

Ci salveranno i bambini e... un arcobaleno


Mia figlia ha appena apportato una piccola variante al decreto Conte, dichiarando la nostra come zona arcobaleno. Da oggi noi siamo ufficialmente in una Zona Arcobaleno. 

Ci sarà il rosso, certo, con tutto quel che comporta, ma non sarà lasciato solo. Gli altri colori gli saranno vicini, lo sosterranno, più caldi e vitali che mai. E chi, come noi, vive in una zona arcobaleno si impegnerà a rispettare il rosso, ma senza dimenticare gli altri colori e ciò che evocano e simboleggiano. 

Il giallo, ci darà luce ed energia, ricordandoci il calore di un sorriso e di ogni gesto gentile. 

L’arancione ci aiuterà a preservare fiducia in noi stessi e negli altri, infondendoci armonia e creatività. 

Il blu favorirà la creazione di un proprio personale angolo di silenzio e contemplazione, dove placare gli animi e coltivare pace e gioia di vivere. 

L’indaco ci aiuterà a trovare in quel silenzio ogni risposta e a maturare una chiara e consapevole visione di ciò che siamo e di ciò che stiamo vivendo. 

Il viola - uno dei colori preferiti dai bambini - terrà vivi i legami con gli altri e con le persone amate, oltre e più forte di ogni distanza. 

Il verde ispirerà speranza e ci ricorderà la bellezza di ogni ciclo di rinascita e rinnovamento, e soprattutto l’imminente arrivo, per tutti noi, di una nuova primavera. Allo stesso modo in cui l’arcobaleno, che lo comprende, annuncia la fine di un temporale e il ritorno del sereno. 
... ... ... ...
L’arcobaleno è molto di più di un semplice ed evanescente fenomeno ottico atmosferico. 

Nella Genesi (9,13) era segno del patto tra Dio e l’umanità. Quando Noè sopravvisse al diluvio universale Dio inviò un arcobaleno come promessa che non avrebbe mai più inondato la terra.

Nella mitologia greca, l'arcobaleno era un sentiero tra terra e paradiso creato dalla messaggera Iris.

Nella mitologia cinese, l'arcobaleno era una spaccatura nel cielo sigillata dalla dea Nüwa con pietre di sette colori differenti.

Nella mitologia irlandese, ma anche in quella sarda, l’arcobaleno è sempre portatore di un tesoro.


Sin da piccoli, e per l'intero corso della nostra esistenza, ogni qualvolta un arcobaleno compare nel cielo, i nostri cuori iniziano a battere più forte, e il nostro corpo è attraversato da una qualche misteriosa vibrazione. Forse la presenza dell’arcobaleno rimanda alla parte più divina della nostra natura, forse quel ponte multicolore è lì a ricordarci che siamo composti della sua stessa sostanza, e che come lui viviamo in un perenne abbraccio tra cielo e terra.


(illustrazione di Christian Schloe)

Il rituale "dissolvipaure"


Le antiche popolazioni del Guatemala usavano diverse pratiche rituali per fronteggiare la paura. Tra queste una molto particolare che ricorda le nostre moderne tecniche di visualizzazione e che tradotta aveva un nome che suonava pressapoco così: il “dissolvipaure”.

 

Ogni qualvolta una paura ci assale non rifuggiamola, ma focalizziamo la nostra attenzione sull’emozione che essa genera. Immaginiamola sotto forma di vento; un vento che soffia forte, fuori dalla nostra abitazione, e sbatte alla nostra porta, con insistenza e impeto. E noi tremiamo al solo percepirne la presenza. Quando avvertiamo il vento toccare la sua massima intensità immaginiamo di aprire la porta e andargli incontro, a braccia aperte, con un sorriso in volto, come si va incontro all’amata. Lasciamoci attraversare da quel vento, scuotere in profondità, sentiamo quello scuotimento come un abbraccio amorevole, perché tale è; la paura è lì per noi, per rivelarci cosa di noi va integrato, il suo esistere è un eroico gesto d’amore, in cui fondersi con altrettanto amore. 

Abbracciamo la paura, amiamola… “E allora quel vento forte subito muterà in brezza leggera sul nostro corpo e amorevolmente dissolverà” lasciandoci il suo nutrimento e la sua esperienza di integrazione.

 

Se vi capita c'è un bel libro (“The Tools”) dove gli autori propongono un esercizio simile, molto interessante. E c’è una frase molto luminosa del poeta Robert Frost che sostanzia questo slancio verso l’ignoto che ogni paura racchiude, un ignoto che ora sappiamo altro non essere che una diversa forma di amore (una forma di cui non abbiamo ancora piena coscienza).

 

“Il modo migliore per venirne fuori è sempre buttarsi dentro”

 

In questo disvelarsi di forme il dolore stesso si trasfigura, e come ricordava un ricercatore dell’anima a cui sono molto grato – Jeff Foster – “il dolore non è il contrario di gioia, né è la porta”.



(materiale liberamente tratto dal mio libro "Il Codice del Cuore")

(illustrazione di C. Schloe)


Il divino nei bambini


Osservare un neonato è una esperienza magica. 
Il suo volto è un luminoso riflesso delle nostre origini, della nostra più autentica essenza. 
Il suo sguardo è ciò che di più vicino a Dio si possa trovare qua sulla terra. 
Non ci sono distanze tra quegli occhi e la verità. 
Non ci sono interferenze tra ciò che pulsa dentro quel corpo - tra ciò che batte in quel cuore - e ciò che fuori si manifesta. 
Il respiro di un neonato è il respiro dell'eterno, del senza tempo, del senza spazio, del senza forma, dell'essenza più profonda dell'universo. 
Il suo respiro proviene dal ventre dell'universo e al ventre dell'universo - incessantemente - connette. Di questo ce ne offre intuizione, e vertigine, ogni qualvolta lo ascoltiamo con attenzione. 
Quel suono ci riguarda - così come quello sguardo - perché non c'è distanza tra lui e noi, tra ciò che rivela e ciò che siamo, che siamo sempre stati e che solo per qualche lungo istante avevamo pensato di non essere più. 


(illustrazione di C. Schloe)

Da cuore a cuore


Si educa con ciò che si dice, più ancora con ciò che si fa, e ancor di più con ciò che si è. 
Questa frase di Sant’Ignazio di Antiochia mi ricorda alcune dinamiche che sottendono ogni processo educativo. 
Il dire, il fare e l’essere sono tre momenti essenziali, indubbiamente, ma io credo fortemente che il terzo sia quello veramente cruciale e i primi due ad esso vincolati e interdipendenti. 
Il “ciò che si dice” e il “ciò che si fa” devono essere coerenti - ed espressione conseguente - a “ciò che si è”, esserne frutto. Se ciò che diciamo e facciamo non rispetta il nostro “essere”, ciò che realmente siamo - e sentiamo dentro di noi - produce un disordine percettivo e una distorsione emotiva nel bambino. Nei bambini, fino a una certa età, vi è una innata coerenza tra interno ed esterno. Dicono, fanno, esternano solo ciò che pensano e sentono. Senza filtri, resistenze e finzioni. E da noi adulti si aspettano altrettanto.

La comunicazione più incisiva e penetrante per i bambini è quella da “cuore a cuore”. Il sentire è il decodificatore di quella comunicazione.

Ciò che trasmettiamo veramente ai bambini è solo ciò che siamo, ciò che proviamo. E trasmettiamo qualcosa attraverso il nostro parlare e il nostro fare solo quando questi sono coerenti, in linea, con il nostro essere, con la nostra vera essenza.


Se siamo felici, trasmettiamo felicità.

Se siamo in pace, trasmettiamo pace.

Se siamo onesti, trasmettiamo onestà. 

E così con tutto...

Qualsiasi qualità desideriamo trasmettere, dobbiamo possederla. Incarnarla. Viverla.

Non possiamo trasmettere ciò che non siamo.

(illustrazione "Twin Heart di C. Schloe)


In viaggio dentro di me


Ogni viaggio parte da una spinta interiore e presuppone un approdo. L'approdo siamo noi.

La nostra esistenza è la rappresentazione più elevata e meravigliosa di viaggio. 

L’esistenza è un viaggio dove la meta è insita nel viaggio stesso e dove ogni suo momento ne è compimento. 

L’esistenza è un viaggio allo specchio, una contemplazione di se stessa nel suo eterno momento presente. E il compito a cui è chiamato ogni viaggiatore è proprio quello di mantenere vigile lo sguardo sul momento presente, che è la nostra rotta suprema. Rotta e nel contempo approdo.

Per questo genere di viaggiatori la vita diviene fedele espressione di se stessi e quindi qualcosa che può essere plasmato, modellato, direzionato, creato e ricreato incessantemente. 
Il viaggiatore autentico sa di avere il timone in mano sua. Può scegliere direzione, tempi, fermate e compagni di viaggio. La consapevolezza di questa possibilità, così come il sapere di averne accesso in qualsiasi momento, è una componente focale del viaggio. 
Noi siamo creatori della nostra esistenza, noi ne direzioniamo il corso e ne modelliamo le traiettorie. E’ sufficiente alzare lo sguardo all’orizzonte e accorgersi che l’orizzonte è già qui, ora, davanti e dentro di noi, e che non c’è distanza tra noi e lui. 
Ogni esistenza vissuta con consapevolezza e presenza diviene un viaggio magico. 
Ognuno di noi, indipendentemente da chi sia e in che punto della propria esistenza sia giunto, può in qualsiasi istante decidere di intraprendere un nuovo viaggio o cambiare direzione e forma a quello intrapreso. 

(illustraz. di C. Schloe)

Lo specchio sonoro


In queste settimane mi accade una cosa strana. In certi frangenti, mentre sto parlando, la mia voce inizia ad assomigliare a quella di un qualche famigliare, amico, conoscente. All’inizio la cosa mi divertiva solamente, poi mi sono accorto che ha pure un senso. E che senso. Di fatto, quando un qualche mio atteggiamento riproduce dinamiche visibilmente presenti in qualche altra persona che conosco, tipiche della loro personalità, la mia voce suona a me come fosse la sua. E questo mi permette di accorgermi di questo mio atteggiamento, di osservarlo distintamente. La voce che assume il suono di quella di un altro è come un allarme - uno specchio - che attira la mia attenzione e mi mostra qualcosa di me che altrimenti non sarei riuscito a vedere. Me ne rende consapevole, permettendomi di intervenire. 


(illustrazione di Christian Schloe)

Volando nel vuoto

Questa storia nasce da una conversazione tra me e un bambino russo di 6 anni, pochi mesi dopo il suo arrivo in Italia. E' una storia di draghi e di amori, due temi che a lui piacevano molto (e a me pure). Immaginate la sua voce delicata e il suo italiano stentato mentre ve la narra:



Storia iniziare con Draghetta rosa. Draghetta rosa avere occhi grandi e un sedere piccolo. Lei cugina di Drago verde.  Altro protagonista della storia essere Draghetto celeste. Lui avere occhi piccoli e un sedere grande. Lui non avere cugini. Loro nati senza ali ma con troppa voglia di vedere il mondo dall’alto. Ecco perché loro decidere di vivere su alta montagna, che per chi non avere ali è un po’ come volare. Loro passare giorni e giorni a guardare il cielo e il mondo dall’alto. Palude di draghi, boschi e lontane città: tutto, visto da lassù, sembrare loro un mucchio di microbica. Loro dire che bello, il cielo essere nostra patria. 

Un giorno un po’ terribile e un po’ no,  Draghetta rosa scivolare su sasso e cadere da montagna. Montagna essere alta più di 5200 km. 
“Metri” dice mamma.

Sì, metri allora.

Draghetto celeste – io non dire prima, ma loro essere sposati – tuffare subito anche lui per correre da lei. Dura corsa, lei in vantaggio di 100 km.

"Metri", dire mamma. 
Sì metri, ora ricordare che essere metri.

Draghetta rosa guardare con suoi occhi tristi e ricchi di paura verso l’alto e Draghetto celeste guardare con suoi occhi tristi e ricchi di paura verso il basso. 
Loro come legati dagli occhi in quel volo da giganti. 
Ma metri passare veloci. 
Lui allungare suo piccolo braccio da drago ma lei essere ancora lontana. 
Dopo 1000 km, metri, sì son metri, io ricordare subito questa volta, passare di lì simpatica mosca con pancia verde fosforescente e vedere Draghetto celeste e dire lui zzzzzz zzzzzzzz e altri zzzzzzzzz, che volere dire che non è buona idea volare senza ali. E ancora zzz e altri zzz del tipo come mai tu saltare da montagna, e poi altri zzz che drago non sentire. 
Intanto lui essere ora più vicino a lei. 
Dopo 2500 metri passare di lì aquila dal becco giallo e vedere drago celeste e anche lui dire che non essere buona idea volare senza ali. “Vuoi che io provi salvare te?”. 
Drago celeste rispondere indicando sotto “No tu volare giù e salvare lei” perché lui sapere che aquila non poteva portare tutti e due. 
Aquila volare 80 metri sotto da Draghetta rosa e chiedere stessa cosa. 
Ma Draghetta rosa rispondere “No, io non vivere senza lui”. 
Intanto mancare 1000 metri alla terra, ma loro ora più vicini.
Intanto Draghetto celeste vedere fiore carino sopra roccia e allungare mano e prendere. 
Ma ora mancare solo 500 metri, sotto tanti sassi con punte come denti di squali affamati, attendere loro. 
Ora mancare 150 metri e le loro mani essere vicine vicine. 
Ora 80 metri e loro mani quasi toccarsi. 
0ra 50 metri e mani toccarsi e stringere e loro occhi guardarsi e loro bocche di drago sorridere come mai prima. Sorridere come quando lui ha dato primo bacio da moroso a lei. 
E ora, mancare 10 metri, loro abbracciarsi, del più gigante abbraccio che draghi mai dati in storia di amore tra draghi.

E dopo? Chiede mamma

Dopo non so, dopo non importa, dire io.

Loro ora abbracciarsi. Questo importa.

Ma come finisce? Chiedere ancora mamma.

Boh, non so. La fine è l’abbraccio.



(illustrazione di C. Schloe)

Sulle tracce di Fedor


Sul mio cammino di riscoperta dello spirito infantile ho incontrato, tanti anni fa, una guida d’eccezione. Naturalmente non poteva che essere un bambino. Il suo nome è Fedor.
E oggi ve lo presento
La prima frase che mi disse appena arrivato in Italia (allora aveva 6 anni) fu: Anch’io non sono venuto a portare la pace. Una frase – così come quella successiva (Sono il fratello minore di Gesù. Ma molto minore) – rivelatrice di ciò che mi attendeva ma soprattutto di chi si nascondeva dietro quello sguardo luminoso. Luminoso come luminosa e sorprendente era ogni parola che usciva dalla sua bocca e che io, nei 2 anni successivi, annotai fedelmente in piccoli taccuini. Da quei taccuini poi nato un libro (Angeli, zanzare e castelli  con prefazione di Igor Sibaldi e presentazione di Massimo Gramellini). In quelle frasi Fedor dimostra di conoscere con disarmante chiarezza concetti profondi e le più importanti leggi spirituali: anima, reincarnazione, risveglio, pensiero positivo, legge di attrazione, magia, gratitudine, meditazione, bellezza, verità, stupore, presenza, qui e ora.
Con parole e linguaggio suo Fedor parla di tutto ciò. Sospeso tra candore e poesia. Come lo sono molti dei momenti trascorsi insieme.
Ricordo, una sera estiva, entrambi assorti dalla vista di un cielo stellato, io gli mormorai: “Che luna, che stelle, che maestosità. Viene voglia di gettarcisi in questo cielo”.
E lui, dopo un breve sospiro: Non c’è bisogno di gettarsi nel cielo, ci si può stupire delle cose anche in terra. Noi siamo già in cielo”.
O quando di fronte a una bambina che si lamentava del proprio aspetto, lui guardandola negli occhi: Non importa se sei bella o brutta, l’importante è che ci sei”.
Alla dolcezza Fedor mescola ironia, ma anche tanta intransigenza. È un bambino che ti forza alla presenza. Uno specchio implacabile per chi gli gravita attorno.
Un giorno avevo smarrito le chiavi dell’auto e lui con tono consolatorio: Bisogna aprire gli occhi, perché se cerchi e hai gli occhi chiusi è impossibile trovare”.
O in un’altra occasione dopo averlo appena rimproverato per avermi rotto una penna: Ma sono cose. Sono solo cose. Capisci?”.
Uno sguardo attento e martellante, ma sempre amorevole.
Alla maestra che gli chiedeva quale fosse il più bel regalo che avesse mai ricevuto, lui: rispose La mia vita”.
Questo è Fedor, e sotto, cliccando, trovate l'ebook con la nostra storia e con il quale daremo anche una mano a costruire uno spogliatoio con docce nella scuola del campo profughi di Samos


18.04.'19

La gentilezza ritrovata

Se ci trovassimo sul letto di morte e ripensassimo con attenzione alla nostra vita, uno dei primi pensieri che ci assalirebbe sarebbe probabilmente quello di non essere stati abbastanza gentili. 
Saremmo dispiaciuti per tutte le volte in cui non siamo stati gentili con qualcuno o con noi stessi. 
Ripenseremmo a quelle volte in cui non abbiamo dedicato attenzione e tempo a un nostro caro, a quelle in cui non abbiamo teso la mano a chi ne aveva bisogno, alle altre in cui abbiamo girato lo sguardo altrove, ignorando chi avevamo di fronte, e, in sostanza, a tutte le volte in cui abbiamo preferito tenere il cuore ben serrato, per paura, pudore o convenzione.
E a quel punto desidereremo fortemente poter tornare indietro, riavere la possibilità di essere gentili. 
Abituiamoci a sentirne questa mancanza sin da ora, senza attendere che sia troppo tardi. 

E adesso sono Qui

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Capitano due tre giornate all’anno - tipo questa - in cui mi sento il goffo albatro della poesia di Baudelaire. Strascino le ali come zavorre e sento come condanna l’esser costretto a camminare.
In questi istanti percepisco famigliare la fragilità di ogni creatura esiliata in spazi impropri.
La vulnerabilità che compete chiunque si ritrovi dove non vorrebbe.
E proprio quando questa sensazione inizia a scuotermi, dalla radio arrivano le parole di una canzone, che fa:

E adesso sono qui
E’ un super potere essere vulnerabili.
E adesso sono qui
Dove sono possibili cose impossibili”

E tutto il pensiero precedente si dissolve, puff 😊

Benvenuti fra gli ingenui!

Amo il termine ingenuità. Descrive magnificamente quello stato di grazia - presente in ogni bambino - in cui si è ancora in piena connessione con la propria anima. (...)

L'uccello azzurro

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Nel mio cuore c'è un uccello azzurro che
vuole uscire, ma con lui sono inflessibile,
gli dico: rimani dentro, non voglio che
nessuno ti veda... (...)

Questa mattina mentre passeggiavo mi ha riecheggiato il verso iniziale di una delle più belle poesie di Charles Bukowski ("Bluebird") e l'ho preso come una sorta di amichevole esortazione per questa giornata (ma anche per quelle successive). 
L'uccello azzurro è la parte più intima, profonda, delicata di noi. Il nostro spirito infantile. E io sento forte il bisogno di concedere più aria all'uccello azzurro che è in me. Permettergli di cantare e volare un poco fuori. 
Ma ancora prima sento il bisogno di imprimere in memoria che in realtà io non sono la gabbia che lo contiene, ma l'uccello che freme per uscire.


Piccolo spot

Un piccolo spot mattutino per un libro che non è mio, ma che sento vicino. Questo libro è il diario di un padre sui nove mesi che precedono la nascita del figlio. L'autore (Massimo Gramellini) è un vecchio amico, e anche se in questi anni le nostre visioni si sono molto allontanate, l'amicizia è rimasta immutata. Per questo motivo mi rende particolarmente felici di sapere che questo blog "Lo Spirito Infantile" - da Massimo simpaticamente rinominato nei ringraziamenti il "blog degli ingenui" - possa esser stato in qualche modo di ispirazione al suo libro. 

Tornare Bambini - Il Percorso

Come tornare...

Il bambino fino ai primi anni è la miniatura di un universo perfetto. 

Le due fasi

Ci sono due momenti essenziali per riconnettersi allo spirito infantile

Imitatio Infantium

Gesù indica nei bambini la via di accesso per entrare nel regno dei cieli

La logica infantile

Una semplice pratica quotidiana per addentrarsi nello spirito infantile.